29 lug 2017

Col de Giatèi

"Col de Giatèi: robusta collina rocciosa tra Piezza e la Val di Zonia, a 2183 m, con cui si arrestano verso Occidente le punte di Zonia; giatèi è un collettivo da giat, e si riferisce alle chiazze di vegetazione e ai cespugli di mirtilli del dorso settentrionale; peraltro giat è voce che ricorre con frequenza come nome di pianta." 
Col de Giatèi, da Fedàre (foto E.M.)
Così il professor Vito Pallabazzer descriveva il Col, rilievo minore del sottogruppo del Cernera che domina Piezza e Fedàre, nei suoi "Cenni storici, geografici e toponomastici sul Passo del Giau", usciti sulla rivista "Le Dolomiti Bellunesi". Era l'inizio degli anni '80, perché la SP 638 tra il passo e la Val Fiorentina non era ancora completata; oltre alla citazione del linguista collese, non mi è occorso di scovarne altre che - essendoci rimaste da scoprire in questi anni solo montagnette che un tempo non avremmo nemmeno guardato - stimolassero la visita a quel dosso un po' misterioso, per quanto abbastanza vicino a Cortina ed evidente dalla zona del Giau.
Questo finché Gianluca Calamelli non ha descritto il Col de Giatèi nella monografia "Cernera Mondeval Rocchette. Itinerari escursionistici nel comprensorio della Val Fiorentina", ospitata dall’Annuario del Caai 2016, ma forse meritevole di un'edizione autonoma.
Quando Iside e io abbiamo letto le note dell'amico Gianluca, però, già da due anni e mezzo avevamo  all'attivo la salita anche di quella piccola cima. Il Giatèi, per varie circostanze, mi ha dato una soddisfazione inversamente proporzionale alla sua corposità (in ogni caso, meno minuta di quanto non appaia dal basso) e alle peculiarità esclusivamente pedestri. 
Giovedì 27 luglio c’è stata l’occasione di tornare lassù, completando la traversata dal Passo con lo scavalcamento delle Crepe de Zonia, e scoprendo, a un tiro di schioppo da una strada ormai quasi in ostaggio a moto e biciclette, una “arena della solitudine” di messneriana memoria. 
La croce de vetta, verso
Colle Santa Lucia (foto I.D.F.)
Tra l’altro, stavolta sono apparsi evidenti i cippi di confine tra il Tirolo e Venezia, che si divisero la cresta dal 1787 al 1918 (quindi legittimando la conoscenza della cima fin dal 18° secolo), e sotto la sommità una piccola croce di legno, affacciata sulle case di Posàlz e Villagrande.
Col de Giatèi: un ameno poggio erboso, niente di strabiliante per il collezionista di grandi montagne, ma una cima preziosa, adatta per un'uscita breve e tranquilla in un luogo inedito nel cuore delle Dolomiti. 
Per salirvi non occorrono relazioni, anche se una esiste e si trova in un sito web di vie normali: il Col è solo il culmine di una cresta, un centinaio di metri di sbalzo prativo verde d'estate e rosso in autunno, dove tra vegetazione e mirtilli si respirano storia e silenzio e i pensieri corrono in libertà. Romantica cima davvero, il Col de Giatèi: resterà così per sempre?

26 lug 2017

Ricordo di Argìa, Giovanni e Mirka del Monte Piana

In Casa di Riposo a Pieve di Cadore, si è spenta sabato 22 luglio a novant'anni Severina Mazzorana: chi ha buona memoria, la ricorderà meglio col nome Argìa e il cognome De Francesch. Dagli anni '60 Argìa - cugina della guida Piero Mazzorana, storico gestore del rifugio Auronzo alle Tre Cime di Lavaredo - insieme ai familiari fu l'"anima" del rifugio dedicato al Maggiore romagnolo Angelo Bosi e situato a quota 2205 sul Monte Piana tra Misurina e Carbonin.
Il rifugio Monte Piana, in una cartolina
di epoca ignota (archivio E.M.)
Nel 1962 il consorte Giovanni De Francesch - nativo di Col di Cugnan - aveva acquisito dai miranesi Giuseppe e Lino Coin, che ne erano proprietari dai primi anni '50, l'edificio costruito in legno su iniziativa di Agostino Martinelli Bianchi, già Capitano degli Alpini, per ristorare gli ex combattenti che salivano sul Piana a cercare le tracce della Grande Guerra e commemorare i compagni caduti. Inaugurato il 29.6.1931 e poi ristrutturato, durante il conflitto l'edificio aveva ospitato il Comando tattico del 3° Battaglione del 55° Reggimento fanteria "Treviso" della Brigata Marche.
Dal 1965 al 1972, "Nani" De Francesch sistemò e ampliò il rifugio, posto sul versante sud-est del tavolato del Monte Piana a circa mezz'ora dalla sommità, ricavandone una struttura in muratura a due piani che gestì con la consorte e i figli Mirka e Mauro, e tanti ricordano come gradito obiettivo di escursioni sia estive che invernali.
Privata immaturamente di Giovanni e del sorriso dell'ancora giovane Mirka, ora anche Argìa se n'è andata, lasciando Mauro a gestire - con la consorte Lucia e le figlie - l'esercizio dedicato all'eroico graduato Angelo Bosi, caduto sul "Monte Pianto” il 17 luglio 1915. 
Nel rifugio e in chi lo frequentò resterà sempre il ricordo di Giovanni, Mirka e Argìa De Francesch che, con tanta fatica, dedizione e senso di ospitalità, hanno saputo avvalorare un luogo cruciale per la storia nazionale, arricchito dal "Museo storico all'aperto della grande guerra" che ogni anno richiama visitatori da numerose nazioni.

24 lug 2017

Il "Cinque Torri": albergo e poi rifugio, ricco di storia

Lungo la via d'accesso alla capanna Sachsendank, edificata nel 1883 sul Nuvolàu, a un’ora abbondante di marcia da quella e alla base della Torre Grande d’Averàu, il 14 giugno 1904 apriva i battenti l’Albergo Cinque Torri. 
Voluta dagli avveduti ampezzani Giuseppe e Mansueto Manaigo da Lago e Agostino Colli Codèsc, che ampliarono un fabbricato di legno già esistente, la costruzione - dotata dei requisiti di un autentico hotel d'alta quota - fu benedetta il 4 ottobre dello stesso anno. 
Per arrivarci, attraverso Crépa e Cianzopé, ci volevano non meno di quattro ore da Cortina. Posto in mezzo a distese prative interamente falciate, l'Albergo serviva da tappa intermedia verso il rinomato belvedere del Nuvolàu; con esso però si voleva in primo luogo favorire la conoscenza delle Torri d’Averàu, pinnacoli di varie forme e altezze noti agli alpinisti fin dal 1880, ma in gran parte ancora da scoprire. 
Sorgendo a ridosso del fronte, durante la Grande Guerra la zona circostante l'Albergo fu fortificata con trincee e postazioni, oggi ripristinate e visitabili con un bel percorso della memoria; per un certo tempo, inoltre, l'Albergo fu adibito a sede del Comando della Brigata Reggio, 45° e 46° Reggimento di Fanteria. 
Pressoché risparmiato da entrambi i conflitti del '900, nel 1937 il Cinque Torri, divenuto Rifugio, era stato comprato dal guardacaccia Pietro Alberti Lèlo. Salve alcune brevi interruzioni, in cui la gestione fu tenuta da altri, la famiglia Alberti - giunta alla quarta generazione con Massimo (valente chef) e con la vigile supervisione di mamma Ines e papà Uberto - è lassù da ottant'anni. 
Campo base del gruppo di alpinisti nato l'1.7.1939 col nome di "Società Rocciatori Sciatori Scoiattolo", che sulle Torri apprese e portò ai massimi livelli l’arte dell’arrampicata, nel 1963 il rifugio fu ammodernato, e a quei lavori negli anni ne seguirono altri, fino al nuovo parcheggio, aperto nel 2016 al termine della strada che sale da Cianzopè. 
Il rifugio Cinque Torri con la Torre Grande d'Averau
(cartolina datata 1949, raccolta E.M.)
Dopo la frana del settembre 1976, che obbligò a ricostruire con criteri moderni gran parte della strada d'accesso, oggi si sale fino ai piedi della Torre Grande in auto. La strada asfaltata, sempre chiusa al traffico in alta stagione, non ha però intaccato più di tanto l'atmosfera che si respira "su dal Lèlo"! 
Il rifugio Cinque Torri è amato e frequentato, da escursionisti, alpinisti e climbers:  offre un ampio ventaglio di vie di roccia dal I-II fino ai gradi estremi, oltre a belle passeggiate, traversate e suggestivi panorami; tra le sue mura echeggiano ancora tante delle storie che iniziarono lassù 140 anni fa. 
Dopo aver ricevuto nell'aprile 1976 sulle Torri il battesimo in roccia (salendo in giornata la Lusy, la IV Bassa e l'Inglese, con Carlo, Ivo e Luciano), nel 2004 ebbi dalla famiglia Albertì l'onorevole e gradito incarico di scrivere la "biografia" del rifugio centenario. 
Il lavoro che ne sortì ebbe un buon successo, è ancora in circolazione e ha aggiunto qualche bella e spesso inedita notizia alla storia ampezzana del Novecento. 
Ai piedi della Grande d'Averàu e delle sue vie più classiche - la Myriam, di cui il 29 giugno è caduto il 90° della prima salita delle guide Angelo e Giuseppe Dimai Déo con Arturo Gaspari Becheréto; il Riss (1932); la Diretta Dimai (1934); la Franceschi (1936) - si gode sempre di una calda ospitalità e di un'ottima cucina; il Cinque Torri resta un caposaldo indefettibile per la conoscenza della conca ampezzana, al quale saliamo sempre con affetto.

20 lug 2017

Dal "Tofana" al "Cantore" e al "Giussani": tre nomi per un rifugio

16.8.1886: due settimane prima della morte del novantenne capostipite delle guide alpine ampezzane Francesco Lacedelli “Chéco da Melères”, che aveva accompagnato Paul Grohmann sia sulla Tofana di Mezzo (29.8.1863) che su quella di Ròzes (29.8.1864), apriva la Tofanahütte in Forcella Fontananegra. 
Secondo ricovero ampezzano in alta quota dopo la Sachsendank in cima al Nuvolàu, la capanna - voluta dalla giovane Sezione locale del Club Alpino Tedesco-Austriaco col sostegno della Sezione di Salisburgo del medesimo Club - si trovava a 2545 m d'altezza sulla sella detritica alla testata del "Valon", tra la prima e la seconda Tofana e distava da Cortina quattro ore di cammino.
Testimone delle imprese ottocentesche sulle vette circostanti, semidistrutta durante la Prima Guerra Mondiale perché venutasi a trovare in posizione strategica, il 5.9.1921 la capanna fu sostituita dalla caserma italiana eretta al suo fianco.  La Sezione Cai Cortina, rinata l'anno precedente, intitolò il grande rifugio al “Papà degli Alpini”, il Generale Antonio Cantore, ucciso il 20.7.1915 mentre da una trincea scrutava i movimenti nelle postazioni austriache attorno alla Forcella. 
Il rifugio dedicato ad  Antonio Cantore
in una storica cartolina (archivio  E.M.)
Condotto per molte stagioni dalle guide Angelo Colle Nèno (1869-1960) e Serafino Siorpaes de Valbòna (1870-1945), nel 1928 e poi nel 1930 il Cantore fu interessato da interventi di miglioria, che lo resero sempre più confortevole. 
Fortunatamente non patì danni sostanziali a causa del secondo conflitto, e nel dopoguerra la sua gestione venne affidata dapprima a Giuseppe Ghiretti "Bepino Mòidel", e in seguito alla guida Bruno Menardi Madèrla ("Gim").
Il 17.9.1972 s'inaugurò sulla Forcella un terzo rifugio, progettato dall'ingegnere Luigi Menardi Malto, finanziato dalla Banca Commerciale Italiana e dalla Sottosezione Comit del Cai Milano e donato al Cai Cortina, che fu intitolato a Camillo Giussani (1879-1960), avvocato, alpinista, dirigente d'azienda e scrittore milanese. 
Il Cantore fu abbandonato, mentre la capanna Tofana, accuratamente ripristinata, venne riaperta il 18.6.1994 con una festicciola che ricordiamo bene, rallegrata - fra i tanti - da alcune guide oggi scomparse: Bruno Menardi, ultimo gestore del Cantore, Luigi Ghedina Bibi e Lino Lacedelli. Da allora, lo storico edificio funge da bivacco invernale del Giussani. 
Punto d’appoggio per la via normale e per la via ferrata Giovanni Lipella in Tofana di Ròzes, nonché per le salite sulle pareti circostanti, la Cengia Paolina, la traversata in Val Travenanzes e per altre possibilità, il rifugio Giussani è stato condotto per 38 anni da Vittorio Dapoz e famiglia. 
Con il ritiro nel 2011 di "Tòio", simpatico e apprezzato conduttore, la Sezione Cai proprietaria ha affidato la gestione dell'immobile al figlio Mauro, maestro di sci e attuale capo della Stazione ampezzana del Soccorso Alpino.

18 lug 2017

Il Pezovico, un angolo di Dolomiti ostico e disertato

Fra più di 3000 descrizioni di salite a vette alpine di ogni difficoltà, impegno e lunghezza, il sito www.vienormali.it contiene forse l'unica relazione disponibile dell'ascensione del Pezovico, ostico e disertato recesso dei monti ampezzani.
Testata d'angolo della dorsale del Pomagagnon, la cima  - che reca un nome antico quanto oscuro - s'impone dall'alto della modesta quota di 1933 metri sulla piana di Fiames e sulla ciclabile verso Dobbiaco.
Affiancata da un risalto senza nome, che la supera di 80 metri e non sarebbe difficile toccare da Forcella Alta - se questa non fosse un po' complicata da avvicinare, per il deterioramento delle tracce che vi salgono da sud - nel 1915-1917 il Pezovico fu munito di opere difensive dagli italiani, e in seguito traforato dalle gallerie dell'ex linea ferroviaria Cortina-Dobbiaco.
Ignorato in Dolomiti Orientali di Antonio Berti e liquidato come poco rilevante in Cristallogruppe und Pomagagnonzug dei coniugi Schmidt (1981), è stato succintamente citato in Gruppo del Cristallo (1996) da Luca Visentini; l'autore, pur meticoloso, non fornì alcun dettaglio sulla salita, non avendola compiuta e basandosi su quanto riferitogli dal sottoscritto, che a essa annovera due visite.
La doppia cima del Pezovico, in alto a destra Forcella Alta
e sullo sfondo la Croda de r'Ancona (foto I.D.F., 14.10.11)
La prima di esse risale a fine maggio '93. Attuando una proposta di Roberto, "Tòne" - al tempo guardia del Parco Naturale delle Dolomiti d'Ampezzo - ci fece scoprire con piacere l'aspro costone, fitto di mughi e quasi vergine di tracce umane e di sostanziali difficoltà, che dal ponte metallico sul Felizon sale per 500 metri di dislivello fino in vetta.
Rimontato il costone, non senza sudore, aggirammo per cenge l'ultimo dosso e ci portammo a Forcella Bassa - "falso" valico ben visibile da Fiames - donde, con uno strappo tra erbe e detriti, dopo un buon paio d'ore dalla partenza toccammo il punto più alto.
Nonostante le visibili tracce belliche, ebbi allora l'impressione di aver toccato la meta più sconosciuta, remota e dimenticata che mai avessi immaginato. Volli vedere se il Pezovico avesse una storia alpinistica:  ce l'ha ed è fatta di un solo capitolo. 
L'unica via aperta finora, con difficoltà fino al VI, sale la parete fessurata sud-ovest, affacciata sulla strada d'Alemagna. Tentata da Casara negli anni '40 e più di trent'anni dopo da Ghedina e Menardi di Cortina, fu superata il 23-24 febbraio '92 da Pozza e Petillo, che bivaccarono sotto la cima e poi scesero avventurosamente a nord, su terreno ignoto a entrambi.
Di escursionisti che conoscessero il Pezovico, invece, non avevo notizie. Così, spinto dalla voglia di condividere la mia scoperta, vi tornai con un amico a metà maggio '96. Di entrambe le salite, mi resta ancora la sensazione provata nel seguire, quasi annusandole, le peste degli ungulati nella coltre di mughi, spessa, torrida e stancante ma riparata dagli strapiombi che fasciano la cima; in seguito indugiai spesso sulla rocca di Podestagno, prospiciente il lato della salita, ripercorrendo mentalmente le tracce allora seguite.
Il Pezovico giustificò senz'altro l'impegno che ci richiese: non fece sconti, per cui oggi lo indico solo a chi, convenientemente preparato e sicuro nel muoversi in recessi tanto inselvatichiti, possa apprezzare a 360° una cima lontana, primigenia, priva da agevolazioni e quasi unica per contesto ambientale. 
Lassù tra erbe, detriti e mughi, si dividerà lo spazio con i gracchi, forse i lenti cerchi dell’aquila o anche il balzo furtivo di qualche camoscio: ma soprattutto, con un'impagabile immobilità.

13 lug 2017

Guardando i "barance del banco" sulla Punta della Croce


A destra la Punta della Croce,
con i "barance del banco" (foto E.M.)
La Punta della Croce è la mediana delle tre elevazioni a ovest di Forcella Pomagagnon, sulla dorsale omonima. Il nome della cima, che nel 1899 von Glanvell accomunava alla vicina Punta Fiames con l'unico nome di Teston del Pomagagnon, deriva da una croce di legno, posta sul culmine dalla guida Giuseppe Ghedina, prima del 1883; rovinata da un fulmine nel 1901, la croce sparì e non fu mai rimpiazzata.
Il versante nord della Punta, che scivola in Val Pomagagnon con erbe, detriti e rocce inclinate, fu salito già in tempi remoti da cacciatori, pastori o topografi. Gli scopritori della parete sud, rivolta a Cortina e alta 600 m, furono invece Felix Pott di Vienna con le guide Giovanni Cesare Siorpaes e Agostino Verzi, il 24.8.1900.
Dell'ascensione si trova un riferimento a pagina 107 della "Guida della Valle d'Ampezzo e dei suoi dintorni" di Bruno Apollonio, Giuseppe Lacedelli e Angelo Majoni, pubblicata sia in italiano che in tedesco nel 1905: ... La punta a sinistra che presenta suppergiù le stesse attrattive e le stesse difficoltà (di “quella a destra della frana ghiaiosa”, cioè la Costa del Bartoldo, n.d.r.) fu salita per la prima volta il 25 agosto 1900 dal Signor Felice Pott di Vienna colla guida Agostino Verzi e denominata “Via Pott” ...
Sullo zoccolo della Punta emerge un'ampia mugheta, di cui Antonio Berti dà notizia già nel 1908 in "Le Dolomiti del Cadore", definendola "larga cengia erbosa". Quasi sospesa sulla muraglia a circa 100 m dalle ghiaie basali, la cengia era una meta comune soprattutto a inizio secolo, quando guide e clienti vi sostavano per riposarsi e cambiare le scarpe, prima di salire la parete. 
Oggetto di visite anche illustri (tra le tante, il Re Alberto dei Belgi, salito nel settembre 1912 con Antonio Dimai, Agostino Verzi e Angelo Dibona), oggi il luogo è calpestato di rado: nel 1981, vi trovai tracce di camosci, ma anche una lattina di Coca Cola... 
Già all'inizio del '900, esso aveva un nome: i barance del banco. Quale banco fosse, lo ignoro; l'oronimo però deve comunque aver avuto un'origine e un significato, anche se impalliditi nel tempo... 
Secondo Orazio De Falkner, che con Grace Filder (poi Contessa di Campello), Antonio Dimai, Antonio Constantini e Zaccaria Pompanin effettuò la III salita della parete il 10.10.1900 (la II era stata compiuta in settembre da J. Pott, Dimai e Angelo Zangiacomi) e ne scrisse sul Bollettino del CAI del 1901, gli ampezzani definivano la cengia di erba e mughi i barance de(l) Santo
Non so bene il perché …, affermava l'alpinista; noi potremmo credere che Santo, nome - tra l'altro - non comune a Cortina, fosse stato il pioniere dolomitico Santo Siorpaes, padre di Giovanni Cesare, che si spense il 12.12.1900, quindi poco dopo la prima scalata della Punta. 
Accanito cacciatore, magari Santo avrà vagabondato tra quei mughi già in gioventù, più sulle orme di qualche preda che come alpinista attratto da quella non semplice parete. 
A chi la ragione? A noi basterebbe capire se, prima del principio del XX secolo (del quale peraltro visse un anno solo), Santo avesse già bazzicato in quell'angolo, non tanto difficile da raggiungere e che serviva a cacciatori e alpinisti, mentre oggi vedrà soltanto qualche sparuto camoscio; o in alternativa, quale fosse il banco che trasmise a quel pezzo di Dolomiti un oronimo caduto nell'oblio.

11 lug 2017

Le guide di Cortina dei Terschak, pionieri del turismo ampezzano

Studiando la storia turistica di Cortina, ero convinto che l'impegno pubblicistico a favore del turismo di Federico Terschak, nostro cittadino benemerito del quale, il prossimo 18 agosto, saranno trascorsi 40 anni dalla morte, fosse cominciato con la “Guida illustrata di Cortina d'Ampezzo e della conca ampezzana”, uscita nel 1929 dallo Studio Editoriale Dolomiti e ristampata per una ventina di volte, in italiano e in tedesco e con qualche variazione di titolo e editore. 
L'altro giorno però, a seguito di uno scambio di  idee e di pubblicazioni con un amico, anch'egli cultore delle opere di Terschak, ho aggiornato con piacere le mie informazioni sull'argomento.
Terschak, nato nel 1890 a Monaco di Baviera e giunto in Ampezzo all'età di sette anni, debuttò come scrittore nel 1914, pubblicando col padre Emil, alpinista e rinomato fotografo (1858-1915), la “Führer durch Ampezzo und die Hochtouren um Cortina”: la seconda edizione della guida, accresciuta e migliorata, uscì per i tipi della Verlag S. Hirzel di Lipsia ancora nello stesso anno. 
La guida di Cortina d'Ampezzo di E. e F. Terschak,
II edizione, Leipzig 1914 (raccolta E.M.)
Il volume contiene belle immagini  di scalate e di rifugi scattate anche da Federico, che fino alla metà degli anni Trenta del '900 svolse una buona attività in montagna, sia d'estate che d'inverno, con guide alpine e per conto proprio.
Nel 1923 Terschak affidò alla Tipografia A. Ronzon di Longarone la sua prima “Guida di Cortina” in italiano; di essa risultava editore, mentre le sorelle Emma e Giovanna Apollonio, titolari di un negozio di "chincaglieria", detenevano la proprietà riservata dei testi.
Corredato da una carta automobilistica curata dall'Ufficio Viaggi A. Dandrea, che descrive le “gite giornaliere attraverso le Dolomiti con automobili di lusso” con gli orari degli autoservizi disponibili, dopo una prefazione il piccolo volume contiene cenni storico-descrittivi del paese, elenchi di passeggiate, gite e attività invernali e cenni pratici sugli alberghi, le ville e le case private, gli esercizi commerciali e i servizi turistici offerti da Cortina nel primo dopoguerra.
Dalle pagine di quella non comune "Guida", prive di immagini e di colori, emerge già tutto l'impegno del giovane "Fritz", che - dopo gli sconvolgimenti dovuti al conflitto e il passaggio di Cortina al Regno d'Italia - si attivò sempre per instradare il paese sui binari del turismo interno e internazionale, svolgendo un compito meritorio e duraturo.

5 lug 2017

Il Campanile Dimai, un Eden beato

Ho visitato più volte con gli amici, ma una anche in solitaria, il Campanile Dimai, massiccio risalto dolomitico che si eleva subito a sud di Forcella Pomagagnon. 
Noto come "Teston del Pomagagnon", all'inizio del XX secolo il campanile fu intitolato dalle guide alpine ampezzane al collega Antonio Dimai Déo, che il 22.VIII.1905 - con Agostino Verzi Scèco e le sorelle Ilona e Rolanda von Eötvös – lungo la parete sud fece una delle sue imprese di maggior impegno. 
Sulla cima, ottimo punto panoramico su Cortina, nel secondo dopoguerra alcuni cadorini fissarono una targa metallica, che già negli anni in cui salii lassù versava in condizioni precarie. 
Il manufatto recava i nomi di due ragazzi poco più che ventenni, il “Ragno” di Pieve Gemolo Cimetta "Cif" e l’ampezzano Giovanni Caldara, che  il 3.VIII.1947 caddero dal Campanile, forse mentre salivano proprio la via Dimai.
Anni fa avevo informato della targa i “Ragni”, che cortesemente mi assicurarono il loro interessamento per la sistemazione. Non ho più visitato il Campanile, ma sono sicuro che - grazie ai dinamici ragazzi cadorini e al loro rispetto per la propria storia - la targa, tanto scolorita da essere quasi indecifrabile, ha ripreso vita, e invito chi passerà da quelle parti a dedicarle un minuto di interesse.
Campanile Dimai, dal rifugio Mietres
(foto E.M., 24.8.08)
Fra circa un mese saranno trascorsi settant'anni dalla disgrazia occorsa a Gemolo e Giovanni: piace pensare che il ricordo dei due scalatori possa sopravvivere su quelle rocce, dove - anche se il Campanile vanta vie di varia difficoltà - penso che non si arrampichino mai in tanti. 
Salvo errori, sulla cima c’è solo la targa e un ometto. Non una croce né un libro di vetta accolgono chi - uscendo dalla traccia che unisce la Punta Fiames a Forcella Pomagagnon - può giungere lassù in mezz'ora di salita per roccette e detriti: la "via normale" è evidente, marcata da qualche ometto e nel complesso non richiede gran impegno. 
Il campanile dedicato un secolo fa a "Tòne Déo", che sembra lo abbia salito per l'ultima volta, ormai anziano, intorno al 1939, cela tra le sue pieghe un piccolo Eden: beato, se confrontato con l'affollamento della modaiola Punta Fiames che, grazie alla presenza della via ferrata Strobel e all'ottima roccia delle sue pareti e spigoli, da decenni è battuta quasi in ogni stagione dell'anno. 

2 lug 2017

Crosc de (Sciora) Ester e Cojina del Moisar: spunti per fare quattro passi

Sulla ripida strada bianca che da Lacedèl, aggirando a nord lo sperone di Crépa, raggiunge Pocòl  - e fino al 1909 fu l'unico collegamento viario fra Cortina e il Passo Falzarego -, agli occhi più attenti non può sfuggire una croce lignea posta al limite del bosco e rinnovata di recente, che reca una targa. 
La croce fu collocata lassù a memoria di un fatto accaduto l' 8 agosto del 1889: in quel luogo Ester Sprood di Bristol, anziana consorte del calzolaio Andrea Constantini con cui probabilmente abitava in una casa vicina, morì mentre passeggiava, a causa di un colpo apoplettico o di un fulmine. 
Il ricordo dell'anglosassone ha dato origine al nome che identifica il luogo, "Crosc de Ester" o "de Sciora Ester". Negli anni '90, operazioni di esbosco nell'area circostante causarono danni al manufatto, subito risistemato per interessamento del Vicesindaco del tempo. Circa cinque anni fa, poi, la croce è stata risanata, abbellita con un tettuccio in lamiera e una nuova targa e resa degna di sosta e di attenzione, per merito di un gruppo di frazionisti di Lacedèl. 
La rinnovata "Crosc de (Sciora) Ester"
(foto R. Vecellio 2016, g.c.)
Essa costituisce un gradito segno di rispetto, prima di tutto nei confronti di una donna giunta da molto lontano per accasarsi a Cortina, poi verso il luogo e il suo nome, acquisito nella toponomastica ampezzana ma perlopiù sconosciuto alle ultime generazioni. 
Poco lontano dal crocifisso si trova un’altra curiosità naturale e culturale: tra le piante alle spalle del manufatto emerge, infatti, un masso un po' strapiombante, detto ab antiquo “Cojina - cucina - del Moisar”. 
Lo studioso Giuseppe Richebuono ritiene che il nome si leghi ad un tale  Angelo Ardovara del villaggio di Còl (secondo Illuminato de Zanna, era invece un Dadié di Campo). Il nomignolo - di origine tirolese, registrato nei vocabolari ampezzani come aggettivo - deriverebbe dalla caratteristica del personaggio, "lento nel pensare e nell'agire, un po' tonto".
Pare che il Moisar avesse adattato lo spazio sotto il masso a ricovero-cucina, e là consumasse i suoi pasti in solitudine: da qui il particolare antroponimo. Cinquant'anni fa il Sestiere di Azon ripropose la figura dell'Ardovara o Dadié che fosse, su un carro di Carnevale dal titolo "El landro - caverna - del Moisar".
La croce e il masso retrostante - che distano pochi minuti dalle case di Lacedèl e Còl e possono costituire la meta di una breve e interessante passeggiata - nonché l'origine dei due toponimi, oggi sfuggono sempre più all'attenzione di locali e non. 
Perché non raccogliere e descrivere organicamente i nomi di luogo ampezzani legati a fatti e persone come "Crosc de (Sciora) Ester" e "Cojina (Landro) del Moisar", che presto o tardi rischieranno ineluttabilmente di perdersi?
Si arricchirebbe così la conoscenza di ospiti, residenti e appassionati e si affiderebbero al ricordo frammenti poco noti della nostra storia.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...