4 set 2016

Campanile Toro: una "orrenda" sfacchinata per un'ora di divertimento

Una salita compiuta due volte a meno di un anno di distanza, quando l'interesse e l'entusiasmo per le scalate erano vivissimi anche se i limiti delle difficoltà erano contenuti (ma i secondi e i terzi gradi ci davano comunque la giusta quantità di emozioni e soddisfazioni), fu il Campanile Toro, negli Spalti omonimi in Cadore. 
Furono due giornate suggestive, svoltesi in una cornice naturale piuttosto selvaggia e al margine di quelle Dolomiti che definisco, magari un po' ingiustamente, usurate. Il ricordo va in primo luogo alla "orrenda" sfacchinata iniziale, obbligatoria per gli aspiranti salitori che dal parcheggio del Rifugio Padova si dirigono alla base del Campanile. 
Dopo una simile sudata, l'ascensione vera e propria è breve, concentrandosi in un’ora di ginnastica su rocce abbastanza solide, con tratti aerei e mai snervanti. Ma se il gusto della salita fu confinato a pochi tiri di corda, coperti in metà del tempo richiesto dalla progressione tra gli alberi e le colate detritiche della Val Cadin, lo scenario in cui s'inscrive il pinnacolo, alcune nozioni sulla sua storia e il colpo d’occhio che si apre dalla vetta, ci rifusero in grande misura della fatica. 
La campana sulla vetta del Campanile
photo courtesy F. Gambino, 12.8.2016
Per noi (Carlo, Federico e Tommaso nella prima occasione, Orazio e Roberto nella seconda, sempre col titolare di questo blog come apripista), il Toro fu una gemma che andava colta, per penetrare un angolo del mondo certamente ancora intriso della genuinità trovata dagli austriaci Karl Berger e Ingenuin Hechenbleickner, che salirono la cima, visibile fin da Vallesella, il 22 luglio 1903. 
Sul Campanile si cimentarono fior di ripetitori, come il Re Alberto dei Belgi col figlio Leopoldo, e aprirono nuove vie scalatori illustri come Tita Piaz, Walter Stösser, Alziro Molin, i Ragni di Pieve. Oggi i pochi salitori sono confortati da alcuni spit, che mi si dice non diano comunque fastidio: chi scrive, che ricorda solo due o tre chiodi e qualche cordino in parete, ne mantiene però un ricordo quasi pionieristico. 
Il piacere di innalzarsi, toccare la vetta "non più ampia di un comune tavolo da salotto", come scrisse in modo pittoresco Antonio Berti, quasi in punta di piedi data l’apparente instabilità, e sbatacchiare la campana che echeggia fino al Rifugio Padova mille metri più in basso, fu un'esperienza di lusso, che torna a galla nei momenti di nostalgia.

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Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...