23 ott 2013

La Gusèla de Padeon, un luogo diverso

A fine luglio 1991 giunsi per la prima volta su una cima dolomitica che mi regalò suggestioni molto diverse dal solito: la Gusèla (in ampezzano Bujèla) de Padeon, sulla dorsale del Pomagagnon. 
Questo 'ago' è una singolare cupola rocciosa, ben visibile dalla SS51 d’Alemagna nei pressi di Ospitale. Sino agli anni '80 del Novecento, il suo interesse era limitato alla disertata via normale: il 28/7/1985 sulla grigia placca – residuo di un remoto franamento – rivolta verso la Val Pomagagnon - gli Scoiattoli Paolo Bellodis e Massimo Da Pozzo aprirono la via “Gipsy”, poi ripetuta e apprezzata varie volte. 
La Bujèla era stata salita  dai carinziani Viktor Wolf Von Glanvell e Karl Günther Von Saar esattamente 85 anni prima degli Scoiattoli, il 28/7/1900, lungo la “cengia a spirale”, che contorna la guglia con una certa regolarità. 
Due giorni dopo il più anziano della "Squadra della Scarpa Grossa", Karl Domenigg, tornò in vetta per l'“alto e liscio camino” che incrocia la via originaria e riserva qualche difficoltà in più. La via Glanvell, percorsa di rado ma giudicata da Luca Visentini nel suo libro sul Cristallo del 1996 una delle più godibili vie normali della zona, si aggira sul 1° grado superiore. 
La Bujèla dalla Val Padeon:
photo: courtesy of Roberto Vecellio, Cortina
Non è certo una semplice escursione, ma neppure una scalata da corda e chiodi: percorrendola s’incontrano tanti mughi, detriti, un breve tratto roccioso compatto e quasi verticale, e in fin dei conti - per conseguire una sommità piatta, erbosa e sorprendentemente comoda, dove lo scorso anno gli amici Roberto e Angelo hanno collocato il libro di vetta – è richiesta fatica ed una certa disinvoltura. 
Dopo il primo fortunato approccio, ritornai sulla Gusèla a metà novembre '92, trovando gran parte del percorso ghiacciato e assai poco gradevole, e poi ancora nel settembre '95: in seguito, mi pare di non aver più avuto occasione di calcare la vetta (ma come si dice, “le montagne sono sempre là...”). 
La Bujèla è un luogo diverso; magari prima che qualche altro franamento sconvolga la “cengia a spirale” e limiti un accesso tutto sommato non troppo complesso né difficile, gli appassionati del “selvaggio” potrebbero farle una visita.

16 ott 2013

Cima Campestrin N, cronaca di un mesto ritorno

In diverse occasioni, mi è occorso d’intraprendere con entusiasmo la salita a monti poco noti - magari vicini a casa - fidando su relazioni il più delle volte terribilmente obsolete, ma tornare a casa con le pive nel sacco per non aver trovato l’attacco, aver frainteso lo sviluppo delle vie, aver sbattuto il naso su difficoltà inattese, spesso dovute a modifiche morfologiche che al relatore della via erano ignote
Ricordo, tra esse, l’itinerario aperto dalla “Squadra della Scarpa Grossa” di Viktor Wolf von Glanvell nell'estate 1899 per la prima salita della Cima Campestrin N, che con la vicina Cima S forma il recesso più arcano delle crode di Fanes. 
Seguendo la descrizione di Berti, probabilmente stesa ancora da Glanvell, quella volta prendemmo una solenne cantonata. Dalla relazione pareva che, dal sentiero tra l’Armentarola e Fanes, all’altezza del Plan de Ciaulunch si dovesse rimontare la conoide detritica che sostiene il castello della cima. 
Da qui per una serie di camini, cenge e salti valutati di 1° o giù di lì, si poteva giungere su una vetta, che - secondo l'amico Claudio Cima, scrittore di montagna prematuramente scomparso – dopo un secolo  non era stata salita più di due-tre altre volte. 
Eravamo in quattro, era pieno agosto: giunti sconvolti alla sommità dell'implacabile e friabile pendio che dalla Cima scende verso la Val Badia, due rinunciarono alla vetta (uno aveva il Rolex nuovo al polso da difendere ...) accomodandosi in un anfratto sotto alcuni massi, mentre gli altri due, col fido “Berti” alla mano, cercarono la via degli austriaci. 
photo: courtesy by
www. magichedolomiti.it
Ponendosi mille domande, gli intrepidi scalarono in libera un lungo camino, inclinato ma con difficoltà certamente superiori a quelle previste, che scaricava senza posa. Quando l’ennesima frana sfuggì loro sotto i piedi puntando dritta ai due rinunciatari ormai quasi assopiti al tepore meridiano, pensammo che forse Glanvell non era passato proprio di là, che il camino era un altro, che una via di 1°  grado non poteva essere tanto infida. 
Alla fine ... lasciammo correre. La Campestrin N sarà certamente una cima misteriosa, suggestiva, fotogenica, ma che orrore, caro Viktor …!

12 ott 2013

Pace con le crode ampezzane

Quasi cento anni fa, anche nella valle d'Ampezzo i professionisti e gli appassionati della montagna avevano altro da pensare che andare "in croda”. 
C'erano centinaia di baracche, trincee, camminamenti, salme da recuperare, e aggirandosi fra le cime era inevitabile imbattersi in gallerie franate, ordigni inesplosi, reticolati rugginosi ed altro. 
Più che gli scalatori, in quegli anni sui monti si aggiravano i recuperanti, inventatisi un mestiere alla ricerca di legno, ferro, piombo, rame, stagno per arrotondare le poco liete condizioni di quegli anni disgraziati. 
Eppure c'erano anche alcuni, più fortunati, che ricominciavano a mettere le mani sulla dolomia. Il ventinovenne Federico Terschak, che già dal 1910 scalava su buone difficoltà ed era stato segretario della Sezione Ampezzo dell'Alpenverein, e Isidoro Siorpaes, un valligiano di qualche anno più anziano e con buone doti di alpinista, il 10 agosto del '19 si unirono per tentare l'interminabile cresta S della Punta Nera, che scende per oltre mille metri di roccia, mughi e detriti dai 2847 m della vetta fino alla base della parete, alta sui ghiaioni sopra Dogana, sull'ex confine fra il Tirolo e l'Italia. 
La cresta S della Punta Nera,
dal Pònte del Vénco (maggio 2009)
Per aggiudicarsi la cresta, ci vollero sette ore: la via Terschak-Siorpaes non passò alla storia come un'impresa memorabile, ma fu il primo tentativo di riprendere la familiarità con le crode, dopo un lustro in cui le Dolomiti avevano visto solo assalti all'arma bianca, cannonate, spari, morti, feriti, distruzione. 
In un certo senso, "Fritz" e "Doro Pear" fecero la pace con le crode ampezzane martoriate da una grande sciagura, dalla quale 140 compaesani non avevano fatto ritorno.

9 ott 2013

"La pelle dell'orso" di Matteo Righetto, un bel libro di montagna

Righetto, classe 1972, insegna materie letterarie a Padova. Parlandoci al telefono, nella sua voce ho percepito l'entusiasmo di chi si avvia verso una nuova attività: nel suo caso, lo scrittore di montagna. Questo è il suo primo romanzo "alpestre", dal quale prossimamente il regista Marco Paolini trarrà un lungometraggio.
"Menego", il protagonista della storia, fa la seconda media ad Agordo ed è sempre vissuto a Posalz, poche case alle pendici del Pore. Le montagne sono il suo mondo, e per lui non hanno segreti. Gli piace guardarsele quando va a scuola, dove ascolta dalla maestra le avventure di Tom Sawyer; gli piace vagabondare per i boschi e andare a pesca sul Codalonga, immaginando vicende fuori dal comune. Appena può va sul torrente, anche se da tempo i paesani sono in fibrillazione: c'è il rischio di incontrare “El Diàol”, il gigantesco orso che si aggira ai piedi del Póre, e il paese lo teme. Per Colle, il plantigrado è una leggenda: enorme, feroce e pauroso come forse non se ne sono mai incontrati.
Il piccolo “Menego” non riesce a credere che suo padre Pietro, sempre scostante, spesso ubriaco e annegato in una solitudine quasi anaffettiva, sia lo stesso uomo che ad un certo momento, attratto anche dalla prospettiva di una grossa taglia, gli propone di partire con lui a dare la caccia all'orso; solo loro due, per giorni e giorni nei boschi a contatto con una natura aspra e selvaggia, dove l'unica presenza umana è un saggio eremita, il vecchio Pepi. E così andrà avanti la storia.
“Menego” vivrà attimi terribili, esaltanti e dolorosi, rendendosi conto che la natura, per quanto pericolosa, non sarà mai crudele quanto gli uomini. 
"La pelle dell'orso" è un romanzo d'avventura ambientato in terra ladina, l'intenso racconto della formazione di un ragazzo, di ciò che accade per la prima volta e poi sarà per sempre. 
Ferdinando Camon ha scritto: “Spesso mi domando: nascerà un nuovo scrittore, capace di raccontare la nuova Natura … la grandezza del piccolo uomo che affronta la Grande Bestia? ...D'improvviso, in silenzio, ecco, il romanzo della nuova natura”.
(Matteo Righetto, La pelle dell'orso, Ugo Guanda Editore  2013, 153 pagine, 14,00 Euro)

1 ott 2013

Frane, frane, frane!

Le nostre montagne crollano ... 
Già si sa, non c'è nulla di nuovo sotto il pallido sole di primo autunno: ma ogni volta i giornali ne parlano, i fatti colpiscono e magari preoccupano anche un po'. 
L'ultimo bersaglio è stato il gruppo del Sorapìs, noto per non essere certo il regno del granito. Lunedì scorso l'instabilità geologica si è palesata sulla parete settentrionale della Cima O del Laudo (2670 m).
Da questa poco nota vetta che, con l'adiacente Cima E, domina l'omonimo Ciadin e il sentiero da Faloria al Rifugio Vandelli, si sono staccati 1000, forse 2000 mc di roccia; comunque, per misera consolazione, è una vetta che pochissimi salgono e ai rocciatori offre soltanto una brutta via di Piero Mazzorana, di cui ho scritto qui il 30 agosto scorso. 
Cima del Laudo O con la parete franata
(dalla Cima NE de Marcoira, estate 2003)
Pare che la frana non abbia sconvolto i vari sentieri della zona, se non la traccia che taglia le ghiaie sotto le Cime del Laudo, abbreviando il percorso da Forcella del Ciadin allo sperone del "Laudo" (il breve passaggio attrezzato che consente di scendere verso il Rifugio Vandelli);  tutto sommato non è sembrata una catastrofe.
Che dire? Piuttosto che sciocchezze, nulla: sono fenomeni naturali che ormai, per merito dei cambiamenti climatici, si ripetono ciclicamente;  in qualche caso (vedi l'enorme frana del 12 ottobre 2007 sulla Cima Una, che ha fatto vendere fotografie e cartoline) diventano un'attrazione turistica, in altri (vedi lo smottamento sulla parete N del Pelmo del 31 agosto 2011) portano lutto e dolore.
Fra un po', quando l'eco di queste ferite si sbiadirà, inevitabilmente si tornerà ancora sulle montagne, intuendo forse nuovi passaggi per aggirare le zone franate e instabili, e magari riscrivendo qualche fatto della storia.
Il divenire delle montagne è questo, lo dobbiamo accettare e adattarci.

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...