28 nov 2010

Un'avventura selvaggia sui monti d'Ampezzo

Nell’estate 1977 per la prima volta con Enrico, e poi in diverse altre occasioni fino al 10/11/1990 con Massimo e Alessandro, scesi per il profondo incavo roccioso in cui alloggia il Ru de r’Ancona, nel gruppo della Croda Rossa d'Ampezzo. Dall'omonimo Busc (teatro della nota leggenda ampezzana del diavolo, che da lassù scappò forando a cornate la rossastra parete, poiché non era riuscito a convertire gli ampezzani) il canalone scende fino a incrociare la Strada d’Alemagna, all’altezza del Ponte de r’Ancona.
Il canalone si sviluppa in un recesso assai impervio per circa 600 m di dislivello. Con un po' di attenzione, visto il letto detritico accidentato e la mancanza di tracce, è tutto percorribile, a parte un tratto.
Giunto, infatti, abbastanza in basso, il torrente si allarga in una vasca levigata, oltre la quale un salto di 15 metri, irrorato da una cascatella, non permette di continuare naturalmente. La soluzione del problema si cela sulla destra orografica del canalone. Ripide tracce risalgono fino ad un cippo forestale e poi scendono, consentendo di scavalcare l’ostacolo e rientrare comodamente nel sassoso solco del Ru.
Il canale, che secondo me pochi hanno percorso, anche perché in alto è friabile e non del tutto sicuro, fu sceso con gli sci nel 1984 da Nina Bartoli Ford, da sola. Della singolare impresa scialpinistica diede notizia il semestrale “Le Dolomiti Bellunesi”.
Fra le numerose avventure selvagge possibili a Cortina, questa è consigliabile a persone esperte e abili, munite di ottimi polpacci e robuste calzature. Salire fino al Busc per la mulattiera militare che rasenta il canale sulla sinistra orografica (parsimoniosamente indicata con bolli rossi), varcare l’originale finestrone roccioso e destreggiarsi tra le ghiaie fino alla strada: è un “sentiero selvaggio” che credo nessun libro abbia ancora pubblicato, e permette di recuperare un frammento di “wilderness” altrove ormai scomparsa.

Lipella: prima che una ferrata, era un soldato!


Nel 1967 le guide di Cortina costruirono una ferrata che dal Castelletto permette di salire in vetta alla Tofana de Rozes, prima lungo una serie di cenge che corrono sulla parete ovest (in parte utilizzate durante la Grande Guerra e poi sagacemente collegate fra loro) e infine risalendo l’anfiteatro e la cresta NW. Lo spettacolare percorso, divenuto subito famoso, fu tracciato, segnalato, attrezzato con 1400 m di fune metallica e 216 chiodi e dedicato alla memoria del volontario Giovanni Lipella. Sfido chiunque a sapere chi era costui. Nel volume del 1921 “Il martirio del Trentino”, ho trovato alcune notizie, che riporto per fornire un elemento in più alla nostra storia alpinistica. Giovanni Lipella, originario di Riva del Garda, aspirante ufficiale della 994^ Compagnia Mitragliatrici Fiat, cadde il 15/6/1918 sul Monte Asolone e fu decorato “di motu proprio di S.M. il Re” con la medaglia d’oro, con la seguente motivazione: “Irredento e volontario di guerra, portò e comunicò fede ed entusiasmo nei suoi mitraglieri. Durante l’infuriare del bombardamento nemico corse da un’arma all’altra, tutti incitando con la parola e con l’esempio alla resistenza e alla fiducia nelle sorti del combattimento. Rimasta un’arma senza tiratori e senza serventi ed in una posizione ormai insostenibile, noncurante del violento fuoco avversario, se la caricò sulle spalle e, portatala in altro luogo, riaperse da sé solo il fuoco sulle ondate nemiche. Ferito una prima e una seconda volta, continuava a tirar fino a che, colpito ripetutamente al petto, cadde offrendo alla Patria la sua bella esistenza”. Non conosco l’anno di nascita del Lipella, ma presumo che quando morì avesse circa 25 anni. Sul terreno e sulle numerose pubblicazioni consultate, non c’è alcuna traccia della sua vita e dei suoi meriti, e mi auguro che queste righe possano servire a ricordare un volontario caduto per la patria ed onorato con uno dei più famosi e suggestivi percorsi attrezzati delle Dolomiti.

Adolescenti allo sbaraglio

Nelle nostre menti di adolescenti, scalare sassi era quasi un mezzo di promozione sociale. Nei primi anni ‘70, nel bosco poco oltre le case di Mortisa, avevamo scoperto un masso, “parente” di quelli di Volpèra, che spuntava dagli alberi, oggi sempre più fitti, come un grosso dente. Complice il parziale e primitivo adattamento che ne avevano fatto in passato i ragazzi della zona, vi andavamo spesso per esercitare, più che le braccia, la fantasia. Da uno di noi, il masso era stato battezzato (mi chiedo ancora perché) “Sas del orso bianco”: se non ricordo male, esso si articolava in un blocco principale dall’angusta sommità, sul quale si saliva per zolle e rocce instabili. Nei dintorni c’era un terrazzo dove con lamiere e plastica era stato ricavato un prototipo di bivacco, una cengia attrezzata con chiodi, fil di ferro e una scaletta di legno ed altri ammennicoli. L’unica zona in cui non mettemmo mai il naso è la parete che guarda Campo di Sotto, non molto alta ma verticale e liscia, dove poi dev’essere salito lo Scoiattolo Carlo Michielli. Noi per il nostro Sas avevamo un sacco d’idee e progetti: dall’attrezzare una via ferrata, per collaudare la quale erano già disponibili due bravi parenti, all’aprire “dirette”, “direttissime”, “spigoli” in ogni centimetro libero. Le difficoltà dei brevi tratti dove era necessario mettere giù le mani per salire toccavano forse il II, ma la roccia era così incerta e mista ad erba e ghiaia, che comunque il masso non sarebbe mai potuto diventare una “palestra” come si deve! Dentro di me, il mito del Sas s’infranse il giorno in cui, dalla stradina sterrata che sale verso il Lago d’Aial, vedemmo sulla parete di fronte al nostro regno due tizi atletici che arrampicavano, su roccia senza dubbio migliore e con difficoltà degne del loro nome. Conoscemmo allora Diego Campi di Vicenza, compagno anche di Renato Casarotto, che in un pomeriggio di “disperazione” stava tracciando con un tale Scattolin una “diretta” in un posto senza nome, snobbando il nostro piccolo mondo di roccia a favore di una parete seria. Lungo la quale noi, comunque, non saremmo mai riusciti a salire.

Inizia Ramecrodes2!

Misteri dell'informatica! Volente o nolente, per non so quali cause sono costretto a "rifondare" il mio blog, che da adesso in poi si chiamerà "Ramecrodes 2", ma sarà sempre lo stesso e riprenderà lentamente a raccontare cronache, curiosità, episodi, storie di montagna, in Ampezzo e non solo. Cominciamo dunque con un pezzo gastronomico.  Durante l’estate, generalmente non gradiamo troppo andar per rifugi, e rispetto all’inverno è meno frequente che, nelle nostre escursioni, facciamo tappa espressamente in qualche rifugio per l'ora di pranzo. Con i rigori invernali, ovviamente, come ogni escursionista abbiamo piacere di finalizzare la camminata alla sosta in una malga o rifugio, per mandar giù qualche cosa di caldo e mettere un piatto gustoso sotto i denti. Dopo numerosi anni di frequentazione delle strutture ricettive alpestri nel circondario ampezzano e pusterese con qualche incursione in Cadore e Comelico, non è assolutamente nostra intenzione stilare una graduatoria in base all’accoglienza, alla simpatia, alla buona cucina, alle tariffe favorevoli; sarebbe antipatico e in questa sede politicamente poco corretto. Intendo soltanto comunicare che il metro di paragone che utilizziamo nelle trasferte, prevalentemente pusteresi perché di qua dal valico di Cimabanche quella purtroppo è una pietanza introvabile, è lo “smorm” ampezzano, ossia il “Kaiserschmarren” tirolese, la frittata dolce e spezzettata, servita con marmellata di mirtilli rossi o, talvolta, con frutta sciroppata, un’autentica delizia senza essere troppo pesante né troppo calorica. E’ un piatto che, insieme alla minestra d’orzo o ai canederli, ci fa spesso compagnia, quando saliamo ad una malga o un rifugio del Sudtirolo, e in conformità a quello, misuriamo generalmente il ricordo e la predilezione per quel determinato luogo. La classifica ha un valore puramente interno, ma siccome in questo campo la memoria ci soccorre spesso, sono ormai diversi i luoghi nei quali ci rifacciamo vivi volentieri per numerosi fattori, non ultimo quello gastronomico; perché siamo certi che lì, se non cambia il cuoco, dovremmo sempre trovare uno “smorm” caldo, abbondante, saporito e accompagnato da un’ottima marmellata. Che volete, credo che il camminare d’inverno sia godibile anche, soprattutto, per questo!

Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria

Ernesto Majoni e Roberto Vecellio, Sachsendank 1883 Nuvolau 2023. 140 anni di storia e memoria , pp. 96 con foto b/n e a colori, Cai Cortina...